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MENO #SLOGAN E PIÙ SCIENZA NELLA ‘CULTURA DELLA SICUREZZA’

MENO SLOGAN E PIÙ SCIENZA NELLA ‘CULTURA DELLA SICUREZZA’

Articolo di Marco Ferro – Founder Mindfulsafety© 

Scrivo questo articolo dopo aver avuto un’interessante scambio di opinioni con un corsista presente ad uno dei miei ultimi corsi.

Mosso da un sincero bisogno di capire e mettersi in discussione quale (ottimo) tecnico mi confidava:
“Provo a fare del mio meglio come ingegnere e coordinatore per la Sicurezza, ma questi due anni li ho sentiti davvero molto pesanti sulle mie spalle , ho percepito spesso la paura, la paura di sbagliare, la paura di provare, di prendersi responsabilità, la paura anche a far di più del proprio pezzo e magari, dopo aver studiato per anni norme tecniche, cercare di applicarle al meglio per fare sicurezza, per poi trovarsi possibili infortuni di lavoratori che non hanno ascoltato, che hanno disapplicato magari involontariamente alcune regole basi, o che si sono distratti. E non lo dico per scaricare le responsabilità, ma per far capire che la cosa più semplice sembra sia proprio il meccanismo della stessa paura che ho da qualche tempo. Mi sforzo di non parlare di sanzioni o punizioni, ma alle volte mi sento come un padre incapace che invece di educare un figlio distratto usa il metodo più semplice e sbrigativo della punizione. Noi tecnici siamo sommersi da slogan per la sicurezza che in realtà non aggiungono molto, ed anzi disorientano. E anche questo fa un po’ paura.”

Ho davvero apprezzato e trovato molto ‘umano’ oltrechè comprensibili queste parole ed il suo stato d’animo: cercare un confronto ed aprirsi, soprattutto da un tecnico di provata esperienza e competenza che avrebbe potuto semplicemente fare il suo aggiornamento, la sua bella formazione, rispondere ad un test. e portare a casa ‘un attestato’. E invece, si è messo in gioco aprendosi al confronto, una delle basi da cui ognuno di noi potrebbe partire per accrescere quelle che vengono anche definite ‘competenze non tecniche’ o ‘competenze leggere’. Ed ovviamente lo ripeto prima di tutto a me, e al fatto che non si smetta mai di imparare, anche se mi occupo di prevenzione e sicurezza da oltre 25 anni (sich!); non mi riferisco ad imparare nuove norme tecniche (che non fanno mai male) ma a quel confronto umano che si apprezza sempre di più ‘invecchiando’.

La ‘paura’ vuole quindi essere parte della risposta di questo articolo, intesa come ‘paura della responsabilità e della sanzione’, emozione come ognuno di noi può immaginare, è uno stimolo inefficace.

LA PAURA NON AIUTA A LAVORARE…

Il primo punto da cui parte questa considerazione è che la paura ha diversi modi di manifestarsi quando non può essere espressa o risolta. Può coinvolgere la mente, con il blocco di alcune zone specifiche del cervello, come anche il corpo, dalla muscolatura rigida alle viscere (muscolatura liscia): può generare quel senso di confusione che fa sentire bloccati e vuoti di risorse, esattamente il contrario di quello che sul lavoro serve oggi per lavorare in modo flessibile, generare soluzioni, idee creative, collaborazioni, essere veloci, fluidi e focalizzati, pronti, se serve, a cambiare direzione.

E come spiegano le neuroscienze la paura agisce su un sistema mentale antico e (ahimè) in modo prevalente rispetto alla ragione: tradotto, serve a poco conoscere tutta la norma a memoria (contenuta nella neocortex), quando hai una paleocortex (sede degli istinti) che pompa paura, tensione e limita la concentrazione!

LA NORMA COME ‘COMFORT ZONE’

E la norma rispetto ai continui aggiornamenti e le continue richieste può sembrare, come di fatto lo è, un ‘luogo sicuro dove rifugiarsi’, ma anche un esercizio mnemonico fine a sé stesso, di interpretazioni giurisprudenziali e applicazioni pedisseque rischiando di rimaner rinchiuso in un recinto mentale di definizioni, che come tutti i recinti proteggono senza mai farci assaporare la sua stessa essenza che probabilmente è lì, a pochi passi fuori dal recinto. E se da una lato ci si può sentire comprensibilmente protetti, da un altro lato si perde tutto il nuovo che sta arrivando, l’essenza del ‘non detto’ di termini spesso abusati ma che sono la chiave del cambiamento: i #sistemidigestione, la #culturaperlasicurezza, agire sulla #consapevolezza, educare al  #comportamentosicuro, fare #formazioneefficace, etc.”

Sono temi così grandi che meritano articoli a parte, ma di cui invito alla riflessione, ponendoci qualche domanda.

PIÙ STUDI INTERDISCIPLINARI?

La vita non si salva con gli #slogan, con le frasi fatte, ma con quello che più dì prezioso abbiamo come genere umano: i principi dell’osservazione, della ricerca ed il supporto della scienza, la sperimentazione, l’evidence based prevention, la tecnologia, tutte basi del nostro progresso e della nostra evoluzione umana. Sembra che questo settore con così tanti addetti ai lavori con grandi competenze e mossi dalle migliori intenzioni, sia tristemente  bloccato (o fortemente rallentato) rispetto a temi così fondamentali, e che a scuola ancora non vengono analizzati adeguatamente se non da un’unica prospettiva cartesiana: una completa mancanza di visione d’insieme, mancanza dì dialogo tra le facoltà tecniche che si concentrano sulla ‘struttura’ (ad es. ingegneria) e le facoltà umanistiche (sociologia e filosofia) o più scientifiche (psicologia e medicina), in cui si analizza il fattore umano ‘a compartimenti stagni’, da prospettive distanti rispetto, ad esempio alle correlazioni statistiche dei centinaia di migliaia dì infortuni che si verificano ogni anno in Italia ed in Europa e, trascurando sistematicamente la cosa probabilmente sotto gli occhi di tutti: che cosa è accaduto nella mente del lavoratore qualche istante prima dell’infortunio?

I percorsi dì studio dovrebbero essere rimodulati sotto questa chiave, in modo interdisciplinare, affrontando i temi della tecnica, dell’ingegneria, delle neuroscienze e del comportamento umano anche in prospettiva rispetto alle evidenti esigenze del mercato del lavoro.

Ed anche le formazioni, per come le stiamo attuando rischiano di essere semplice conoscenza della sicurezza (mero approccio cognitivo) molto distante da un approccio consapevole (approccio esperienziale) che è la base della crescita della vera ‘cultura della sicurezza’. Le neuroscienze spiegano molto bene questo punto: se non si attivano alcune parti specifiche della corteccia prefrontale non ricordiamo, quindi non apprendiamo.

La conoscenza e la metacognizione non sono sufficienti, e possono essere addirittura controproducenti se non si potenziano le funzioni e l’attenzione dall’interno, con esercizi di consapevolezza propriocettiva, enterocettiva o neurocettiva (che ho già avuto modo di spiegare in altri articoli).

Esempio: Dire ad un lavoratore stressato, o con difficoltà attentive “stai attento”, “controlla, pianifica, valuta, monitora, ricordati di fare quel compito”, è un po’ come dire ad un bambino che non sa giocare a pallone di ‘impegnarsi di piu’… o una persona con una gamba ingessata di correre più veloce i 100 mt: si creano cortocircuiti mentali.

UN CONFRONTO INTERDISCIPLINARE PER CAMBIARE PARADIGMA

La mente si distrae, le emozioni giocano brutti scherzi, la disattenzione è la base di molti infortuni e qualcuno dovrebbe affrontare questi argomenti, qualcuno ci dovrebbe spiegare come questi automatismi cognitivi incidano più o meno involontariamente sulle nostre azioni quotidiane, su quali correlazioni statistiche la persona ‘abituata a distrarsi’ continuamente, giorno dopo giorno, abbia messo in tasca il ‘biglietto della lotteria’ per il prossimo infortunio.

Quindi, come si può uscire da questi automatismi, come si può imparare ad ascoltare questi detonatori emotivi che fanno leva sulle nostre paure e distrazioni, come si diventa davvero ‘presenti mentalmente’ o consapevoli e sicuri sul lavoro?

La #disattenzione altro non è che un’attenzione secondaria rispetto ad un obiettivo primario, e si allena (o disallena) con la pratica: per capirci, più tempo “imparo a distrarmi” con facilità (ad es. con il fenomeno dell’infodemia e delle migliaia di notifiche settimanali da social) e più mi sarà facile condurre la mia mente ad un’attenzione bottom up (o predisposizione alla disattenzione), a perdermi decine di ‘near miss’ quotidiani, e dopo aver fatto ‘anni di palestra disattentiva’, sarà statisticamente probabile che la mano finirà (dopo migliaia dì disattenzioni e mancati infortuni) sotto una pressa, che avró fatto valutazioni errate di un rischio che euristicamente non conosco,  che il sovrapensiero mi porterà a sottovalutare il rischio, che l’incapacità a gestire lo stress e tutti i pensieri quotidiani potrebbe contribuire a farmi scivolare dalle mani un utensile dal ponteggio in quota, o che addirittura possa fare scivolare la persona. Ed ancora, che a seguito di infortunio, lo stesso organo di vigilanza tenderà a ricostruire lo stesso con gli schemi rigidi e precostituiti che conosce, evitando di infilarsi in ‘voli pindarici psicologici’ che la Procura della Repubblica non comprenderebbe, perché l’argomento #fattore umano, #disattenzione, #stress e #rischi psicosociali che intervengono nelle dinamiche infortunistiche sembrano ancora troppo complessi e fumosi da articolare, limitandosi alla ricerca delle solite responsabilità indicate dal D.Lgs. 81/08 e dal codice penale: #mancata formazione, #mancatocoordinamento, #attrezzature, #Dpi, #culpa in eligendo, #esercizio di fatto-art.299; ma anche questi appartengono alla famiglia di bias cognitivi che potrebbero portare a conclusioni errate, tra cui la resistenza al cambiamento, l’errore del giudizio retrospettivo, l’overconfidence e il bias di conferma: tutti argomenti largamente trattati dalla psicologia e dalle neuroscienze ma sconosciuti ai più,  o flebilmente intuiti da tecnici molto competenti che cominciano ad avere il coraggio di mettere in discussione le regole del gioco, quando quel gioco rischia di assomigliare a una roulette russa, in cui ogni anno oltre 1000 persone perdono.

E poi ancora, riguardo la #paura. Agire sotto l’effetto di questa emozione primaria, di quella che il nostro cervello percepisce come minaccia, (piuttosto che per desiderio di ricompensa), attiva circuiti neurali del tutto sfavorevoli alla produttività e alla sicurezza.

NEUROSCIENZE E SICUREZZA SUL LAVORO

Le #neuroscienze, intese come lo studio delle basi cerebrali del pensiero e la misurazione delle attività neurali, così come la pratica della consapevolezza potrebbero dare ampie risposte che ahimè il legislatore, ad oggi, non sembra raccogliere e in grado di rispondere in modo chiaro e strutturato.

Eppure il legislatore nel d.lgs.81/08, affronta il tema in modo lungimirante parlando di miglioramento continuo, modelli di gestione, buone prassi, ‘formazioni e addestramenti efficaci, persone esperte’, ‘miglioramento della tutela della salute e sicurezza attraverso la riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico raggiunto‘ (art.15 comma1, lett.c)) senza però entrare nel merito dell’efficacia dell’intervento e dare un preciso riscontro di quali progressi raggiunti potrebbero effettivamente avere implicazioni pratiche per il miglioramento continuo: sicuramente la tecnica ha fatto passi da gigante, contribuendo ad aumentare la produttività e ridurre gli infortuni, ma siamo ancora lontani da un ‘approccio olistico e multidisciplinare’ così come richiesto dalla Commissione Europea..

E forse anche i componenti tecnici del governo, salvo alcune eccezioni, sembrano affetti da alcuni dei bias cognitivi di cui sopra, primi tra tutti 1.l’overconfidence, 2.l’effetto struzzo e 3.lo status quo: tradotto in modalità pop ‘1.come siamo bravi a scrivere le norme, 2.lo risolviamo aumentando le sanzioni e 3.abbiamo sempre fatto così’, rimanendo così nella comfort zone del “recinto pensiero tecnico-normativo” e facendo una gran fatica a comprendere il pensiero umano nella sua interezza, compresi i meccanismi d’azione degli automatismi e della disattenzione (alla base di centinaia di migliaia di infortuni etichettati frettolosamente come accidentali); solo demandando a ‘tavoli interdisciplinari’, proponendo bandi, incentivi e investimenti nella ‘vera ricerca’ in campo psicologico, neurobiologico e tecnologico si potrà cominciare a far la differenza.

Personalmente ritengo che la formazione per essere davvero efficace (visto che la commissione europea parla di modelli evidence based) dovrebbe essere misurabile, integrata ed esperienziale.

Misurabile con tecnologie che rilevano il nostro livello di attenzione, disattenzione e stress (inteso come sbilanciamento del sistema nervoso autonomo) come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) o con sensori portatili decisamente meno sofisticati ma più comodi ed economici: siamo davvero sicuri che un test finale fatto di crocette possa misurare l’apprendimento di un percorso? E se il soggetto da formare avesse un deficit da attenzione? E se questa ‘lacuna’ potesse essere intercettata e il soggetto potesse essere davvero aiutato?

Integrata perché il formatore della sicurezza ad oggi è una figura prevalentemente tecnica (area dei rischi tecnici), oppure psicologo o sociologo (area della comunicazione).  Il tecnico dovrebbe acquisire quel minimo di competenze delle neuroscienze e del comportamento umano per capire i meccanismi dell’attenzione e dell’apprendimento. Dovrebbe esporre gradualmente e direttamente il soggetto a “stress” attentivi-esecutivi crescenti. La gradualità permetterebbe di rinforzare il soggetto, ed il rinforzo alimenterebbe la motivazione, la motivazione associata amplifica le risorse cognitive. In altri termini non è sufficiente spiegare come si sta attenti, ma bisogna indurre il soggetto ad esprimere in gradualità crescente tutti i tipi di attenzione e le funzioni esecutive di base tramite pratiche settimanali di consapevolezza.

Esperienziale perché dovrebbe unire la nozione al saper fare, ed il sistema limbico è strettamente correlato alla velocità di apprendimento, memoria e gestione delle emozioni (spesso detonatori della distrazione se non educate): leggere un libro di cucina è decisamente diverso da preparare una pietanza usando i 5 sensi corporei, parlare di gestione dei conflitti e della rabbia è completamente diverso dal vivere quell’esperienza.

La nostra mente funziona come un muscolo. Più facciamo ginnastica mentale e più otterremo risultati. Ma abituare la mente a questo genere di nuovi stimoli neurali è decisamente più faticoso che guardare la TV o i messaggi sui nostri devices. Per questi motivi alcuni lettori concludono la lettura di un articolo, ricominciando con un nuovo articolo più semplice, digeribile e possibilmente con qualche slogan conosciuto. In questo modo si ritorna al circuito ritorsivo dell’abitudine e del conosciuto, fino a che non appare un nuovo articolo che attira l’attenzione. Accade l’infortunio e parte la trafila di ‘messaggi copia e incolla’ di politici, giornalisti, influencer e guru della sicurezza sulle #mortibianche che si potevano evitare, sulla necessità di investire al più presto nella #cultura della sicurezza, sul fare formazioni efficaci, con tanti facili slogan fatti di hashtag e chioccioline che durano al massimo #unpaiodigiorni o @qualchesettimana‘ ma, che ahimè non offrono alcuna soluzione concreta.

Anche se è improbabile che questo dibattito si risolva in un prossimo futuro, i risultati delle neuroscienze potrebbero fornire approfondimenti sulle basi teoriche della distrazione e degli automatismi che portano agli infortuni. Dal mio punto di vista, fortunatamente condiviso da molti altri colleghi sensibili alla questione, la possibilità di trattare questa delicata materia in modo serio e multidisciplinare e con modalità ‘evidence based’, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico raggiunto esiste, e non è neanche troppo distante dalla realtà.

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